Linee guida, clinical pathway e procedure per la pratica
infermieristica: un inquadramento concettuale e metodologico
Paolo C. Motta
Negli ultimi anni, all’interno della professione infermieristica, si è delineata e diffusa la convinzione
che lo sviluppo scientifico, culturale e sociale dell’assistenza infermieristica sia strettamente consequenziale
alla piena valorizzazione di una competenza specifica dell’infermiere nell’ambito dell’assistenza
sanitaria, in grado di produrre - a favore delle persone assistite - ‘ propri’ risultati di salute
sostenuti da prove cliniche di efficacia (Evidence-based Nursing). Nella cosiddetta “epoca del postmansionario”,
cioè in un nuovo contesto giuridico e professionale che regolamenta il ruolo e le funzioni
dell’infermiere ormai sgravate dai limiti impliciti in un’elencazione di atti esecutivi di tipo tecnico,
il consolidamento della sfera di autonomia e di responsabilità professionale nell’assistenza impone
all’infermiere il possesso di un a rticolato bagaglio metodologico, tecnico e re l a z i o n a l e da utilizzare in
ambito clinico ed organizzativo. Si tratta, ad esempio, di definire, introdurre e sperimentare nuovi
approcci e nuovi strumenti per orientare la pratica professionale verso l’appropriatezza, l’efficacia e
l’efficienza delle prestazioni; di organizzare l’assistenza infermieristica secondo modelli gestionali
‘per pro c e s s i ’, profondamente integrati e multiprofessionali, poiché la ‘buona salute’ non può essere
considerata un esito di cui dispone una singola professionalità; di fondare la valutazione, la decisione
e l’azione clinica sulle conoscenze prodotte dalla ricerc a e su adeguati indicatori e standard, mediante
l’opportuno ricorso a strumenti quali linee-guida, raccomandazioni, percorsi clinico-assistenziali,
protocolli e procedure. In base a questa tendenza, è ragionevole prevedere che il cosiddetto ‘governo
clinico’, cioè la razionalizzazione e la standardizzazione delle attività sulla base delle prove di eff i c acia,
assumerà in futuro una rilevanza cre s c e n t e, in modo che la prassi assistenziale possa essere sempre
più ancorata alla ormai vasta ed autorevole produzione scientifica in campo infermieristico.
La pianificazione dell’assistenza e
gli strumenti della standardizzazione
Con il termine ‘ standardizzazione’ si
intende, nella sua più comune accezione
positiva, il p rocesso finalizzato ad
uniformare attività e prodotti sulla base
di norme, tipi o modelli di riferimento.
Nella pratica infermieristica, tale processo
può applicarsi - secondo la logica
propria dei sistemi di qualità - ad un
consistente numero di situazioni: infatti,
costruire ed adottare s t a n d a rd s, nel
momento della pianificazione e dell’organizzazione
degli interventi da realizzare
in risposta ai bisogni della persona
assistita, significa riferirsi ad un com -
plesso di elementi che rappresentano le
caratteristiche appropriate ed ottimali
di una determinata prestazione o di un
determinato processo.
L’etimologia del termine ‘standard’
richiama il vocabolo di lingua francese
‘ etendard’ (stendardo - bandiera): ciò
che può essere esposto; nel nostro caso,
reso pubblico e garantito all’utente.
Standardizzare, dunque, non significa
ridurre la prassi ad una routine indifferenziata
che non tenga in giusta consi-
Paolo C. Motta
IID, Docente di
Metodologia Clinica
e della Ricerc a
Infermieristica
Corso di Laurea per
I n f e r m i e re, Università
Vita-Salute
San Raffaele
D i re t t o re Scientifico
di Nursing Oggi
Nursing Oggi, numero 4, 2001 27
28 Nursing Oggi, numero 4, 2001
Teoria e metodi
derazione la soggettività della persona che si assiste,
ma a s s i c u r a re tutti coloro che beneficiano di un serv i -
zio circa il livello di qualità della prestazione re s a. In
tal senso, sono esempi di standard, per una determinata
Unità Operativa, il mancato sviluppo - per tutte le
persone allettate - di lesioni da pressione (s t a n d a rd di
esito); il colloquio infermieristico a scopo anamnestico
nelle prime ore dall’ingresso in reparto, per tutte le
persone ricoverate (s t a n d a rd di pro c e s s o); la disponibilità
di un’apposita saletta per garantire la privacy
durante l’igiene della cute e la tricotomia in preparazione
all’intervento chirurgico (s t a n d a rd di stru t t u r a).
I processi e gli strumenti della standardizzazione si
propongono, dunque, di m i g l i o r a re l’efficacia della
gestione delle situazioni cliniche e, in aggiunta, di
d i m i n u i re la variabilità di comport a m e n t i . Ancora
oggi, infatti, la probabilità che un malato riceva un
intervento sanitario efficace dipende troppo spesso
dalla singola realtà ospedaliera in cui viene ricoverato
(o addirittura dai singoli professionisti), piuttosto che
d alle reali condizioni di salute che manifesta.
Il dibattito interno alla professione infermieristica
sulle prospettive e sulle problematiche connesse
all’attività di standardizzazione riconosce un punto
di origine nella natura stessa dell’assistenza infer -
mieristica. Essa, infatti, si occupa della salute secondo
una visione olistica e non parcellizzata dei pro -
blemi di salute del singolo e della collettività ed
assume il principio della personalizzazione quale
elemento centrale di una relazione pro f e s s i o n a l e
basata sulla comprensione e sul riconoscimento della
dimensione soggettiva - biofisiologica, psicologica e
socioculturale - dei bisogni di cui il malato è portatore.
Spesso si è osservata, in tale dibattito, un’eccessiva
e non giustificata polarizzazione delle opinioni
verso due estremi: da un lato, lo scadimento della
standardizzazione nella formalistica traduzione di un
giusto principio (la volontà di codificare modalità di
intervento razionali, intersoggettive ed efficaci) in
una prassi attenta alla sola sfera biologica dei problemi
clinici - quella cioè più facilmente oggettivabile
secondo i canoni metodologici propri di un tale
approccio -, imponendo così un’organizzazione rigida
e routinaria delle attività; dall’altro, l’assunzione
di una sorta di “ideologia della personalizzazione”,
che comporta il rifiuto a standardizzare qualsiasi
intervento assistenziale (“Ogni malato è diverso
dagli altri, non si possono dare ricette”) e spesso è
utilizzata come vero e proprio alibi per legittimare
l’indisponibilità a misurare l’efficacia delle proprie
attività. A proposito della variabilità dei comportamenti
di fronte a problemi clinici analoghi, risulta
paradigmatico un lavoro pubblicato nel 19961: per il
trattamento delle ulcere varicose degli arti inferiori,
per cui era riconosciuta da un lato l’inutilità della
terapia farmacologica e dall’altro la maggiore efficacia
della fasciatura a compressione elevata o media
(con eventuale compressione pneumatica intermittente),
si era rilevato l’uso di 31 diversi tipi di medicazione,
28 diversi tipi di bendaggio e 59 diverse
preparazioni topiche...
S t a n d a rdizzazione e personalizzazione non necessa -
riamente devono essere considerate come appro c c i
contrapposti e tra loro inconciliabili: è possibile,
infatti, concepire e praticare l’assistenza infermieristica
come attività personalizzata, cioè rivolta alla persona
intesa nella sua totalità ed unicità e nella sua
peculiare esperienza di malato, e - ove possibile -
standardizzata, cioè orientata alla scelta di quegli
interventi che hanno già dimostrato, in situazioni cliniche
analoghe, una reale efficacia. Occorre, infatti,
considerare la standardizzazione come p rocesso rivol -
to non solo alle attività, a ‘ciò che si deve fare’ ma
anche - e soprattutto - agli esiti, a ‘ciò che si deve
raggiungere’ ed ai modi per controllarli e valutarli.
In altre parole, l’infermiere deve porsi non solo
come esecutore, ma anche come decisore e valutatore,
cioè come professionista autonomo e responsabile.
è questa, in sintesi, la ‘strategia basata sul risultat
o ’2, che promuove una gestione del risultato in
forma non separata dagli aspetti operativi che concorrono
al suo raggiungimento, allo scopo di impedire
quella scissione fra aspetti decisionali ed aspetti ese -
cutivi che spesso disconoscono il valore sociale del
ruolo e della funzione infermieristica. La standardizzazione
assume rilevanza professionale nella misura
in cui gli infermieri si impegnano a dimostrare l’eff icacia
delle proprie azioni ed evidenziano il contributo
concreto e specifico del nursing alla promozione, al
recupero ed al mantenimento della salute.
Nella presente relazione, saranno analizzati i principali
strumenti della standardizzazione dell’assistenza
infermieristica: linee guida, percorsi clinicoassistenziali
(clinical pathway) e procedure. Di ciascuno
di essi, si illustreranno le caratteristiche
salienti, in ordine alla metodologia con cui sono pro -
dotti e alle condizioni di utilizzo nella pratica assi -
stenziale. L’adozione combinata di tali strumenti
richiede, infatti, un puntuale inquadramento concet -
tuale e metodologico ed il loro corretto posizionamento
in una definita organizzazione funzionale e
gerarchica.
Nursing Oggi, numero 4, 2001 29
Linee guida, clinical pathway e procedure
- La p rocedura inferm i e r i s t i c a è considerata la
forma di standardizzazione più elementare. Essa
formalizza una tecnica infermieristica semplice
(ad esempio: l’iniezione intramuscolare, il drenaggio
posturale, il rilievo della temperatura corporea,
ecc.) o complessa (ad esempio: il monitoraggio dei
parametri clinici nel periodo post-operatorio, il
controllo delle infezioni urinarie nelle persone portatrici
di catetere vescicale, la valutazione dello
stato di nutrizione-idratazione, ecc.). Rappresenta,
pertanto, uno strumento finalizzato prevalentemente
al controllo della qualità tecnica di una sequen -
za lineare di comport a m e n t i, anche indipendentemente
dalla sua appropriatezza3.
- Il percorso clinico-assistenziale (in lingua inglese
clinical pathway, che alcuni autori chiamano
anche protocollo), invece, prestabilisce un determinato
corso d’azione, un determinato iter diagno -
stico, terapeutico ed assistenziale da attivare a
fronte di una situazione clinica tipica. Ad esempio,
con tale strumento, può essere codificato il percorso
necessario alla preparazione ad un determinato
intervento chirurgico o ad una determinata indagine
diagnostica; oppure, quello per recuperare l’autonomia
nell’alimentazione e nel movimento delle
persone colpite da ictus con emisindrome. Il percorso
clinico-assistenziale, pertanto, riguarda il
controllo sia della qualità, sia dell’appropriatezza
di un insieme di attività, a volte maggiormente
legate alla diagnosi e alla cura della malattia o, in
altri casi, concernenti la sfera autonoma dell’assistenza
infermieristica. Poiché spesso non è possibile
separare nettamente la competenza medica da
quella infermieristica, un efficace strategia per la
costruzione dei clinical pathway è rappresentata
dall’approccio interdisciplinare. Tali strumenti
assumono spesso una forte connotazione locale, in
ragione delle specifiche condizioni strutturali -
anche di carattere extra-scientifico - in cui si realizza
l’assistenza medica ed infermieristica nelle
diverse realtà sanitarie.
- La linea guida, secondo la classica definizione
dell’American Institute of Medicine, è un insieme
di raccomandazioni sviluppate in modo sistemati -
co (cioè basate sulle prove scientifiche esistenti a
favore o contro un determinato intervento) allo
scopo di s o s t e n e re medici, infermieri ed utenti
nelle decisioni da pre n d e re. Essa, dunque, non
viene concepita come uno schema di sequenze
comportamentali da seguire ed applicare in modo
rigido, ma come una sintesi ragionata delle
m i g l i o ri informazioni scientifiche disponibili
circa le modalità di diagnosi, cura ed assistenza
più appropriate in un determinato contesto, realizzata
allo scopo di facilitare il decision making
di un professionista e dello stesso paziente. Le
linee guida, inoltre, sono attualmente valorizzate
poiché assolvono scopi che oltrepassano il semplice
accordo intersoggettivo tra operatori nella
pratica: esse rappresentano uno strumento multidisciplinare
di esplicitazione della ‘buona pratica
clinica’ non solo tra gli ‘addetti ai lavori’, di trasparenza
e coinvolgimento nei rapporti con utenti,
politici ed amministratori. Numerosi autori,
infine, associano l’adozione delle linee guida alla
gestione economica dei sistemi sanitari, poiché
esse rappresentano uno strumento di controllo ed
allocazione in condizioni di squilibrio tra risorse
sempre più limitate e domanda di prestazioni
sempre più costose.
Le linee guida
Le linee guida di pratica clinica sono ‘ documenti
sviluppati sistematicamente per aiutare medici,
infermieri e pazienti a scegliere la più appro p r i a t a
assistenza sanitaria in specifiche circostanze clini -
c h e ’. Esse sono prodotte, in genere, da società
scientifiche, associazioni professionali ed istituzioni
sanitarie. Non è possibile individuare un formato
unico per la loro redazione, poiché le linee guida
possono variare di dimensione in relazione all’arg omento
(dalla gestione degli accessi venosi intravascolari
o dell’incontinenza urinaria, all’appropriatezza
clinica e deontologica dell’utilizzo dei placebo
o dei mezzi di contenzione fisica, ecc.).
La metodologia di costruzione di una linea guida
prevede un percorso sintetizzabile in alcune fasi
principali:
1. la scelta e la definizione dell’“oggetto” (o arg omento)
sui cui verte la linea guida;
2. la previsione dei possibili benefici clinici, dei
vantaggi e degli svantaggi connessi alla sua adozione,
sulla base di una rassegna sistematica delle
prove scientifiche e del parere di esperti;
3. la considerazione delle implicazioni di carattere
anche generale della sua adozione, ad esempio in
merito alle risorse disponibili;
4. lo sviluppo di raccomandazioni di pratica clinica;
5. la redazione della linea guida;
6. l’adozione della linea guida.
Le linee guida - che possono riguardare attività preventive,
diagnostiche, terapeutiche e di follow-up -
30 Nursing Oggi, numero 4, 2001
Teoria e metodi
prevedono lo sviluppo di specifiche raccomandazioni,
‘pesate’in base al concetto di ‘forza’: maggiore è la
consistenza delle prove derivate dalla ricerca scientifica
(la cosiddetta ‘evidence’), maggiore sarà l’accordo
degli operatori alle raccomandazioni contenute
nelle linee guida. Le raccomandazioni sono, dunque,
l’elemento centrale di ogni linea guida, poiché
affermano chiaramente il tipo di azione da fare o da
non fare in specifiche circostanze (ad esempio: l’uso
di un protettore impermeabile dei lembi della ferita
riduce le infezioni postoperatorie)4.
Le linee guida sono nate allo scopo di concentrare
un volume sempre più ampio ed articolato di cono -
scenze scientifiche in un formato più facilmente uti -
l i z z a b i l e ed applicabile al singolo caso clinico.
Infatti, la produzione di lavori scientifici è in continuo
aumento e si stima che, ogni anno, vengano
pubblicati oltre due milioni di articoli di medicina, in
circa 20.000 riviste.
I metodi per lo sviluppo delle linee guida cliniche
sono essenzialmente tre:
- l’opinione dell’esperto;
- le conferenze di consenso (consensus conferences);
- le revisioni sistematiche.
Il primo metodo è ritenuto il meno attendibile.
Infatti, l’opinione dell’espert o è il prodotto di un
processo non strutturato e generalmente informale,
basato sull’esperienza di un singolo in un determinato
campo.
La consensus confere n c e ha invece lo scopo di
verificare il grado di accordo tra esperti circa la
gestione di una determinata situazione clinica, partendo
dall’analisi dei dati disponibili in letteratura.
Si tratta, in pratica, di un incontro a carattere multidisciplinare
a cui partecipano personalità riconosciute
per competenza ed assenza di conflitto di interessi
e che è preceduto da una fase preparatoria in cui
sono formulati i quesiti a cui la conferenza deve fornire
una risposta. A guidare le decisioni delle consensus
conferences sono generalmente i risultati
degli studi clinici controllati.
Le conferenze tendono a stimare il grado di accordo
(misure di consenso) e a risolvere il disaccordo
(sviluppo del consenso), secondo sistemi di graduazione
riferiti alle prove cliniche. Tra questi, quello
suggerito dal Council of Health Care Te c h n o l o g y
statunitense (in cui il massimo grado di accordo è
rappresentato dal grado I, per poi decrescere progressivamente)
è il seguente:
- grado I: accordo basato su studi clinici controllati
correttamente eseguiti;
- grado II-a: accordo basato su studi clinici non controllati
correttamente eseguiti;
- grado II-b: accordo basato su studi di coorte o
caso-controllo correttamente eseguiti;
- grado II-c: accordo basato su studi basati sull’osservazione
di serie temporali, in presenza o assenza
di un intervento;
- grado III: accordo basato su opinioni di esperti
basate essenzialmente sull’esperienza clinica,
meno frequentemente su studi descrittivi.
Le revisioni sistematiche sono strumenti generalmente
retrospettivi ed osservazionali (poiché si basano
su risultati già noti), in grado di sintetizzare in
un’unica stima l’insieme delle prove scientifiche a
favore o contro un determinato intervento. Quando i
risultati degli studi originali sono sintetizzati, ma
non statisticamente combinati, si parla di revisione
sistematica qualitativa; quando i risultati dei singoli
studi sono combinati statisticamente, si parla di revi -
sione sistematica quantitativa o di m e t a n a l i s i .
L’ordinamento, il costante aggiornamento e la diffusione
di tali strumenti è divenuto, in questi ultimi
anni, l’obiettivo di un gruppo sempre più vasto di
clinici, metodologi ed utenti, associatisi nella
Cochrane Collaboration5.
Il p rocesso di produzione e di disseminazione delle
linee guida ha una certa durata e consta di varie fasi:
una buona linea guida non si fa in una settimana, ma
da un minimo di 6 mesi ad un anno. La prima fase è
rappresentata dalla costituzione di un g ruppo di
r i c e rca multidisciplinare, deputato ad individuare una
priorità, che generalmente coincide con un’area clinica
in cui è dimostrata la necessità di introdurre linee
guida, a causa di una notevole variabilità dei com -
portamenti. Una volta definiti il problema clinico e le
pratiche correnti, si passa alla ricerca delle prove
disponibili in letteratura. Le fonti di informazione
usate sono molteplici. In particolare, possono essere
classificate sostanzialmente in tre categorie:
1. le fonti tradizionali (un collega esperto, i trattati
ed i libri di testo, le revisioni tradizionali);
2. le banche-dati biomediche, che indicizzano gli
articoli pubblicati nelle riviste specializzate
(Medline, Embase e Cinhal, per l’ambito infermieristico);
3. le pubblicazioni secondarie, che si basano su letteratura
‘filtrata’secondo criteri evidence-based;
4. le revisioni sistematiche.
Per sintetizzare i risultati, si descrivono e si classifi -
cano le ricerche condotte in accordo con i livelli di
evidence. Infatti, in funzione del tipo e della qualità
Nursing Oggi, numero 4, 2001 31
Linee guida, clinical pathway e procedure
delle prove disponibili, le raccomandazioni cliniche
delle linee guida possono essere classificate nel
seguente modo:
- Classe A - Esistono buone prove scientifiche che
supportano le raccomandazioni di utilizzare un
dato intervento nella pratica clinica;
- Classe B - Esistono discrete prove scientifiche che
supportano le raccomandazioni di utilizzare un
dato intervento nella pratica clinica;
- Classe C - Esistono scarse prove scientifiche per
consigliare o meno l’utilizzo di un dato intervento
nella pratica clinica, ma esistono altre considerazioni
a supporto delle raccomandazioni;
- Classe D - Esistono discrete prove scientifiche che
supportano le raccomandazioni di non utilizzare un
dato intervento nella pratica clinica;
- Classe E - Esistono buone prove scientifiche che
supportano le raccomandazioni di non utilizzare un
dato intervento nella pratica clinica.
Uno degli aspetti principali delle linee guida è che la
loro produzione, e quindi la formulazione delle raccomandazioni
che da esse derivano, deve essere fondata
da un punto di vista scientifico. I requisiti a cui
dovrebbero rispondere le linee guida, suggeriti
dall’Agency for Health Care Policy and Researc h,
sono i seguenti:
- validità: una volta adottate, le linee guida devono
produrre un miglioramento in termini di salute e di
economicità;
- riproducibilità: gruppi diversi, partendo dalle
medesime prove, devono essere in grado di produrre
le medesime raccomandazioni;
- rappresentatività: le linee guida devono essere
prodotte attraverso il coinvolgimento di varie
figure interessate al problema (è dimostrato che
le linee-guida prodotte da gruppi multidisciplinari
tendono ad essere più ragionevoli e meno restrittive);
- attendibilità: tutti gli operatori, nelle medesime circostanze
cliniche, interpretano ed applicano in
modo sostanzialmente sovrapponibile le raccomandazioni;
- applicabilità: le linee guida devono far riferimento
a coorti di pazienti con caratteristiche definite;
- flessibilità: le linee guida devono considerare quali
situazioni devono considerarsi eccezioni e quali tra
le indicazioni di preferenza dei pazienti possono
essere prese in considerazione;
- chiarezza: le linee guida devono essere presentate
in un formato consono all’uso nella pratica clinica,
senza utilizzare un linguaggio ambiguo;
- concretezza: le linee guida devono raccomandare
azioni specifiche;
- documentabilità: le linee guida devono riportare il
nome dei partecipanti alla loro produzione, la
metodologia utilizzata e le prove scientifiche su
cui sono basate, nonché la qualità di queste ultime;
- aggiornabilità: le linee guida devono prevedere in
quali circostanze esse stesse devono essere
aggiornate rispetto alle prove scientifiche di riferimento.
Le linee guida rappresentano un valido strumento
per la pratica clinica, per l’aggiornamento e per l’educazione
permanente. Tuttavia, una scelta diversa
da quella suggerita dalle linee guida, motivata e
riportata sulla documentazione, non deve essere
interpretata necessariamente come malpractice, in
virtù dei principi della libertà di cura e della personalizzazione
dell’assistenza cui si è accennato nel
paragrafo precedente.
Le linee guida offrono altri potenziali vantaggi per
il paziente. Spesso una versione divulgativa ‘per l’utente’,
realizzata tramite depliant o videotape, riesce
ad informare esaustivamente circa le diverse opzioni
terapeutiche, aiutando i pazienti a partecipare alla
scelta del trattamento in modo più consapevole.
I percorsi clinico-assistenziali (clinical pathway)
I percorsi clinico-assistenziali (clinical pathway)
prestabiliscono uno schema ottimale della sequenza
dei comportamenti in relazione all’iter diagnostico,
terapeutico ed assistenziale da attivare a fronte di
una situazione clinica tipica, allo scopo di massimizzare
l’efficacia e l’efficienza delle attività. Ta l i
schemi, da considerarsi comunque flessibili e non
statici, presuppongono, perciò, la possibilità di essere
impiegati nella maggior parte dei casi in cui si
presenta una determinata situazione o patologia.
Essi prevedono la costruzione di un percorso metodologico
incentrato sui seguenti aspetti principali:
1. la definizione delle caratteristiche cliniche (o
patologiche) del paziente a cui si riferisce il clini -
cal pathway;
2. la specificazione delle azioni diagnostiche, tera -
peutiche ed assistenziali e la loro sequenza;
3. la definizione degli esiti di salute, in termini di
promozione, miglioramento o mantenimento della
situazione clinica presente, ad esempio, all’inizio
del ricovero.
Alcuni autori associano i percorsi clinico-assistenziali
al Managed Care System ed alla necessità di esplicitare
all’interno della singola struttura sanitaria gli
32 Nursing Oggi, numero 4, 2001
Teoria e metodi
standard minimi di cura ed assistenza. Inoltre, essi
sono considerati parte integrante del sistema di
documentazione delle attività svolte dai medici e
dagli infermieri.
I clinical pathway in ambito infermieristico possono
essere costruiti in relazione:
- ad un particolare processo diagnostico (ad esempio,
la valutazione dei bisogni di assistenza infermieristica
della donna portatrice di tumore alla
mammella);
- ad un particolare insieme di trattamenti (ad esempio,
il recupero dell’autonomia nel soddisfacimento
del bisogno di eliminazione dopo un intervento
chirurgico di gastrectomia);
- ad un iter diagnostico o terapeutico da condurre in
collaborazione con altre figure sanitarie.
La concezione del percorso clinico-assistenziale come
s t rumento metodologico di pianificazione dell’assi -
stenza infermieristica, impone l’esame delle condizio -
ni operative che ne rendono possibile (ed utile) la
costruzione e l’applicazione a specifiche situazioni
cliniche. Occorre cioè individuare correttamente le
c i rcostanze in presenza delle quali è possibile definire
un profilo di assistenza infermieristica standard i z z a t o
per situazioni cliniche pre v e d i b i l i , le sole che possono
essere oggetto della costruzione di protocolli:
- l ’ e m e rgere di una situazione clinica sufficiente -
mente ed univocamente delineata;
- la prevedibilità, in tale situazione, di uno più biso -
gni di assistenza infermieristica, della loro modalità
di manifestazione, delle loro eventuali cause;
- la possibilità di esplicitare uno o più esiti finali;
- la possibilità di scegliere ed indicare atti da eseguire
e specifiche procedure da rispettare, specificando
modalità, tempi, repertorio di risorse, ecc.;
- la possibilità di definire criteri (indicatori e stan -
dard) per valutare l’efficacia dell’intervento professionale;
- la possibilità di personalizzare il protocollo, cioè
di realizzare la flessibilità, modificando alcune sue
parti, affinché si adatti meglio alle particolari esigenze
manifestate dalla persona assistita6.
Il percorso clinico-assistenziale, pertanto, rappresenta
una scelta da realizzare sulla base dell’analisi dei
bisogni di assistenza infermieristica identificati e
della situazione in cui si manifestano, poiché è
necessario verificare la presenza delle condizioni
sopra descritte per attivare un protocollo (conditio
sine qua non sono, appunto, la prevedibilità della
situazione clinica e la tipicità della categoria diagnostica,
cioè il bisogno di assistenza infermieristica).
L’adozione dei clinical pathway, pertanto, rappresenta
una fondamentale strategia per governare il
sistema organizzativo ed informativo di una determinata
unità operativa, poiché orienta la prassi in funzione
del controllo dei risultati degli esiti assistenziali
e, quindi, della qualità delle prestazioni. Inoltre,
la diffusione di tali strumenti potenzia e favorisce
l ’integrazione interd i s c i p l i n a re ed il ruolo degli
infermieri nell’organizzazione dell’assistenza infer -
mieristica e nel controllo della qualità.
Le procedure
Le p ro c e d u re infermieristiche rappresentano la
forma di standardizzazione più elementare, poiché si
riferiscono ad una successione logica di azioni, più o
meno rigidamente definite, allo scopo di raccomandare
la modalità tecnicamente ottimale di eseguire
una tecnica infermieristica semplice o complessa.
Obiettivo delle procedure è dunque la riduzione della
variabilità ingiustificata ed il perseguimento di una
relativa uniformità dei comportamenti. Il fatto che tali
strumenti riguardino unità anche elementari di un
determinato processo assistenziale (ad esempio, il
posizionamento di dispositivi intravascolari nella preparazione
all’angiografia venosa, la sostituzione dei
contenitori di raccolta dei sistemi di drenaggio toracico,
ecc.), rende possibile - e spesso auspicabile - una
loro trasversalità di utilizzo, cioè l’adozione o lo
‘ scambio’ della procedura tra differenti unità operative
ed il loro inserimento all’interno di specifici percorsi
clinico-assistenziali.
Oltre alle procedure dirette alla standardizzazione
della pratica infermieristica, si possono costruire
procedure dirette alla standardizzazione dei metodi e
degli strumenti (ad esempio, le modalità per il passaggio
delle informazioni al cambio del turno di servizio)
o, ancora, procedure dirette alla standardizza -
zione dell’organizzazione delle attività infermieristi -
che e domestico-alberg h i e re (ad esempio, la documentazione
infermieristica da rilasciare alla dimissione
o l’acquisizione e la distribuzione dei pasti
dalla cucina centralizzata).
Uno schema generale per la costruzione di procedure
deve considerare:
- la definizione di un titolo, descrittivo del campo di
applicazione della procedura e dei suoi scopi;
- la formulazione di un glossario delle sigle e delle
definizioni utilizzate nel testo della procedura;
- la definizione delle responsabilità e delle compe -
tenze degli operatori coinvolti nell’esecuzione
della procedura;
Nursing Oggi, numero 4, 2001 33
Linee guida, clinical pathway e procedure
- la definizione della sequenza, delle modalità, della
tempistica e dell’impiego di risorse e materiali per
ciascuna attività che compone la procedura;
- la segnalazione delle possibili complicanze;
- le eccezioni alla sua applicazione;
- la bibliografia di riferimento;
- l’indicazione degli autori che hanno formulato la
procedura;
- la data della stesura e delle eventuali revisioni.
Le attività che meritano di essere oggetto di una specifica
procedura devono essere strettamente legate a
ciò che i professionisti ritengono realmente utile o
necessario al miglioramento dell’attività clinica e di
équipe. Infatti, il percorso di costruzione, applicazione
e verifica continua delle procedure è comunque
complesso e richiede un investimento di risorse
(tempo, materiali, energie intellettuali, accordo tra
professionisti, ecc.) e non può essere destinato ad
‘ o g g e t t i ’ non percepiti come prioritari o magari
‘imposti’da altre figure professionali o dalle direzioni.
Alcune teorie manageriali forniscono numerose
tecniche per ‘scovare’ l’attività su cui è necessario, o
più utile, o più conveniente orientarsi. Ad esempio, il
cosiddetto ‘incidente critico’, che può essere utilizzato
in qualsiasi ambito o specialità: tutti gli operatori
si impegnano a monitorare, per un certo periodo
di tempo, l’attività di reparto allo scopo di registrare
(meglio per scritto) eventuali errori, malpractices, e
lamentele e di individuare i problemi più gravi o più
frequenti di una realtà. Questa tecnica è facilmente
applicabile anche se ha dei limiti. Il problema individuato
diviene il punto di partenza per la costruzione
delle procedure: il passaggio successivo consiste nel
cercare di standardizzare tutte le attività che incidono
sul manifestarsi di quel determinato problema.
Naturalmente, non c’è un’unica modalità che deve
essere adottata per costruire una procedura. Ad ogni
modo, è indispensabile che alla sua redazione con -
c o rrano in primo luogo i ‘clinici’ e che si evitino
a p p rocci top-down generati da coordinatori, diri -
genti, docenti o altro … Ugualmente, è necessaria
una piena condivisione da parte di tutti gli utilizzatori:
non serve formalizzare una procedura se poi è
rispettata solo da alcuni; a questo proposito, la
migliore garanzia della massima condivisione è data
dal lavoro di gruppo. Infine, devono essere codificate
e condivise non solo le modalità di applicazione
(quando la si applica, in quali situazioni, per quali
assistiti, ecc.) ma anche le modalità di aggiornamen -
to continuo e revisione: anche su questo aspetto non
esistono regole fisse, vale la ricerca della massima
partecipazione e del massimo coinvolgimento possibili
degli utilizzatori.
Esistono pareri discordanti sui ruoli e sulle funzioni
di controllo, verifica e certificazione delle procedure
e dei diversi strumenti della metodologia e della
pratica di nursing. Per molti versi, è un aspetto che
attiene in primo luogo la politica professionale e,
dunque, risente delle diverse concezioni che i professionisti
hanno di figure, istituti ed organi quali i
Collegi, le associazioni professionali, i propri dirigenti,
ecc. Tuttavia, se è vero che una gestione verticistica
della fase produttiva può risultare scarsamente
motivante, è altrettanto vero che un’efficace forma
di controllo al di sopra della singola unità operativa
consente una più ampia diffusione e condivisione
delle esperienze maturate a livello locale.
S t a n d a rdizzazione o personalizzazione? Un
falso dilemma
La riflessione sulla standardizzazione dell’assistenza
infermieristica rimanda alla più generale questione
della dimensione tecnica del nursing. L’ e v o l u z i o n e
tecnologica della medicina e dell’assistenza infermieristica
rappresenta, per molti infermieri, una
delle principali cause del rischio di disumanizzazio -
ne, depersonalizzazione e ‘ cosificazione’ della persona
assistita. In altre parole, la tecnica si tradurrebbe
in comportamenti clinici routinari e ‘burocratizzati’
e porterebbe alla negazione dell’individualità,
della soggettività e della dignità dei pazienti, al
punto, dunque, da mettere in discussione il ruolo
stesso degli infermieri, privati in qualche misura, ad
opera della tecnologia, della loro ragione sociale e
delle finalità assistenziali. Il nursing scientifico e
tecnologico, secondo tale prospettiva, promuove un
paradigma confliggente con l’imperativo deontologico
dell’infermiere di ‘essere vicino’(tale è l’etimologia
latina del termine ‘assistenza’: ad- sisto) e di
prendersi cura della persona in toto, in una relazione
professionale autentica e di tipo empatico. Per altri
infermieri, viceversa, la tecnologia costituisce non
solo un aiuto concreto nella pratica clinica, ma anche
un fattore di professionalizzazione da non trascurare.
In tal senso, gli infermieri avrebbero ottenuto una
più salda consapevolezza della propria identità professionale
ed un maggior riconoscimento sociale
proprio in ragione della competenza tecnica specifi -
ca, elemento maturato attraverso impegnativi percorsi
di studio e distintivo nei confronti delle tante
figure di supporto, che si limitano ad un’assistenza
generica, esecutiva e poco tecnologica.
34 Nursing Oggi, numero 4, 2001
Teoria e metodi
A nostro parere, il problema del rischio tecnicistico
non riguarda la tecnica in sé, ma il più generale
contesto assistenziale nella quale viene eserc i t a t a:
non il catetere, non la sequenza procedurale per
posizionarlo o rimuoverlo, ma il processo infermieristico
che porta a pianificare ed eseguire il cateterismo
e la relazione con l’infermiere che si svolge
prima, durante e dopo l’intervento tecnico possono
esporre la persona ad un’assistita routinaria e spersonalizzata.
È il metodo ad essere chiamato in causa,
non l’oggetto tecnologico o il procedimento formale
con il quale deve essere usato. L’infermiere può
essere in grado di compiere numerosi ed impegnativi
interventi tecnici, anche standardizzati, senza,
per questo, rinunciare all’azione complementare
della propria p rofessionalità relazionale, comunica -
tiva e, persino, art i s t i c a. Alla tecnica dei ‘tecnici’ e
delle fredde macchine, l’infermiere può sempre
accompagnare una tecnica più adeguata allo scopo
della promozione della salute. La personalizzazione
dell’assistenza non dipende dalla scelta della tecnica,
ma dalla sua collocazione in un rapporto professionale
autentico, capace di riconosce nella persona
assistita non un ‘oggetto’, ma un soggetto7. Milos
Janicek ha definito il rapporto tra standardizzazione
e soggettività del malato come ‘il crocevia di clinica,
etica ed economia’. In tal senso, collegare la
convinzione dell’opportunità di perseguire la prati -
ca sanitaria basata sulle prove con i valori a cui il
malato fa riferimento e le sue pre f e renze costituisce
il vero fondamento della Evidence-based Practice8.
Infatti - aggiunge - non è tanto difficile identificare
una ‘prova di eff i c a c i a ’ capace di suggerire un
comportamento o di sollecitare l’assunzione di una
decisione clinica, quanto, piuttosto, riuscire a renderla
compatibile con le preferenze tacite o espresse
dal paziente. In questo senso, la ricerca qualitativa
- spesso fortemente sostenuta da psicologi,
sociologi ed infermieri - può contribuire ad una
migliore comprensione della realtà, mediante lo
studio dei singoli ‘casi’ (le cosiddette ‘ c l i n i c a l
situations’). Oggi è accettato che la ‘clinimetrics’,
cioè l’attenzione alle ‘misure in clinica’ non si
debba limitare alla pressione arteriosa o al livello di
colesterolo, ma debba prestare massima attenzione
anche alla raccolta dei dati ‘soft’, intendendo, con
questo termine, sentimenti quali la tristezza, la solitudine,
lo sconforto.
Ecco, dunque, che la costante attenzione alla personalizzazione
dell’assistenza, tipica della moderna
dottrina infermieristica, può riorientare i più moderni
modelli di standardizzazione verso soluzioni non
deterministiche ma sistemiche, cioè basate su una
visione olistica della persona assistita e dei suoi
bisogni di salute, non rigide ma flessibili, non mera -
mente tecniche ma professionali.
Conclusioni
Gli effetti benefici del trasferimento nella pratica clinica
di linee guida, raccomandazioni, percorsi clinico-
assistenziali e procedure dipendono da numerosi
fattori, dei quali i più rilevanti, in ordine alla natura
dell’assistenza infermieristica, sono:
1. il giusto grado di flessibilità nell’interpretare ed
utilizzare tali strumenti, in ragione della situazione
clinica e delle caratteristiche individuali dei
pazienti; diversamente, si incorrerebbe nell’ecces -
so di standardizzazione e nel conseguente approccio
routinario alla cura della persona;
2. una cultura professionale ed organizzativa inter -
d i s c i p l i n a re e d’équipe, orientata alla qualità dei
risultati, all’efficienza e, soprattutto, disponibile
al cambiamento9.
Infatti, nel percorso di crescita delle competenze
infermieristiche, occorre sapersi aprire ad una vera
logica interdisciplinare. Accettare che ciascuna figura
professionale agisca ‘in proprio’, con metodi propri
e decisioni indipendenti ed interessandosi solo ad
una ‘porzione’ della salute della persona (come se
esistesse un malato degli infermieri diverso da quello
dei medici, essendovi invece solo e soltanto un
malato!) impedisce la condivisione delle responsabi -
lità ed il miglioramento della qualità dell’assistenza
sanitaria. Tale aspetto coinvolge dunque, ancora una
volta, il rapporto tra clinica ed organizzazione: se è
vero che la diagnosi e la decisione clinica si riferiscono
giuridicamente ad una sola figura, in quanto
responsabile dell’assistenza assicurata ad un beneficiario,
le decisioni gestionali spettano all’intera
équipe e su di essa ricadono. Ciò implica che la traduzione
operativa dei principi di una pratica fondata
sulle prove scientifiche non può sottrarsi alla
costruzione interdisciplinare di standard che garantiscano
all’infermiere, come alle altre figure sanitarie,
di inserire il proprio contributo professionale all’interno
di obiettivi di salute condivisi da tutti i soggetti
coinvolti nella presa di decisione. Soprattutto a questo
devono servire l’autonomia e la responsabilità
riconosciute agli infermieri attraverso la nuova normativa,
che definisce l’assistenza infermieristica
come p rofessione sanitaria e non più come p r o f essione
sanitaria ausiliaria.
Nursing Oggi, numero 4, 2001 35
Linee guida, clinical pathway e procedure
Note
1. L. Freak et Al., “Leg ulcer care in the UK: an audit of
c o s t - e ffectiveness”, Health Tre n d s , 27, 1996: pp.
133- 136.
2. P. Di Giulio, “Una strategia professionale basata sul
risultato”, Foglio Notizie, 4, 1997.
3. Mentre la qualità attiene alla valutazione della razionalità
tecnica, dell’efficienza e, soprattutto, dell’efficacia
di un intervento, l’appropriatezza riguarda la valutazione
della necessità di un intervento in relazione alle
condizioni cliniche manifestate dal paziente. Una procedura,
pertanto, potrebbe essere condotta in modo
ineccepibile sul piano della qualità tecnica, ma rivelarsi
inappropriata in relazione alle condizioni di salute
della persona a cui è stata destinata.
4. P. Di Giulio (a cura di), “Operatori ed assistiti, quanto
conta il rapporto”, L’Infermiere, 2, 2001, p. 55.
5. Si è soliti collegare la nascita dell’Evidence- based
Medicine al pensiero e all’opera svolta, soprattutto
negli anni Settanta, dall’eminente epidemiologo inglese
Archibald Cochrane, tra i primi a sottoporre a critica
spietata la prassi medica, a suo parere troppo ‘indifferente’
ai risultati della ricerca scientifica. Ma solo nel
1992 è stato coniato il nuovo termine, in un articolo
intitolato “Evidence-based Medicine: a New Approach
to Teaching the Practice of Medicine” pubblicato da
JAMA. Nel 1993 viene fondata la C o c h r a n e
Collaboration, una struttura internazionale con il compito
di preparare, aggiornare e diffondere re v i s i o n i
sistematiche degli studi clinici controllati sugli effetti
dell’assistenza sanitaria e, laddove non siano disponibili
studi clinici controllati, revisioni sistematiche delle
evidenze comunque esistenti. Nel 1996, David Sackett
fornisce una prima articolata definizione di EBM: una
prassi medica nella quale la valutazione degli atti diagnostici
e le decisioni concernenti gli interventi terapeutici
sono effettuati sulla base di un’analisi attenta e
sistematica delle informazioni che provengono dalla
più recente ricerca clinica.
6. P.C. Motta, “Protocolli infermieristici: un inquadramento
concettuale e metodologico”, Nursing Oggi, 4,
1998.
7. P.C. Motta, “Tecnica ed assistenza infermieristica: un
inquadramento concettuale”, in L’infermiere e l’evolu -
zione della prassi: le proposte dei pro f e s s i o n i s t i ,
XXXIII Congresso Nazionale promosso dall’A.N.I.N.,
Rimini, 2001.
8. M. Janicek, Casi clinici ed Evidence-based Medicine,
Roma, 2001.
9. A tale proposito, Paola Di Giulio sottolinea come il
miglioramento continuo della qualità dipenda dalla
sola iniziativa volontaristica degli operatori ma preveda
il coinvolgimento dell’intera organizzazione, perché
molti cambiamenti, anche nella clinica, devono poter
contare su un supporto delle direzioni e su un impegno
di risorse. “[…] non c’è nulla (forse molto poco) che
possa essere fatto dai soli medici o dai soli infermieri”.
P. Di Giulio, “L’assistenza infermieristica basata sulle
evidenze”, in F. Cavazzuti, G. Cremonini, Assistenza
geriatrica oggi, Milano, 1998.
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miglioramento della qualità in ambito ospedaliero,
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- A. Liberati et Al., “La Evidence-based Medicine: origini
e prospettive”, Tendenze Nuove, 1, 1997.
36 Nursing Oggi, numero 4, 2001
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