Lavoro, Stress e Burn-Out in Ospedale:
1. Lo Stress
Hans Selye nel 1936 definì, come stress, la reazione biologica aspecifica dell’organismo alla presenza di un agente stressante (stressor) tesa a ristabilire la condizione precedente (omeostasi). La risposta dell’organismo allo stress attraversa tre fasi:
• Allarme: che comporta modificazioni di carattere biochimico e ormonale;
• Adattamento: l’organismo per adeguarsi alla nuova situazione si organizza in senso difensivo;
• Esaurimento: in cui avviene il crollo delle difese e l’incapacità di adattarsi ulteriormente.
Si distinguono due tipi di stress: uno benigno, adattivo e uno dannoso, disadattivo che non porta all’omeostasi. Se il soggetto è in grado di adottare una strategia adeguata, si potrà avere addirittura un miglioramento della performance (eustress); In caso contrario si avrà suo peggioramento (distress) con la comparsa sia di sintomi di tipo psicologico (nervosismo, tensione, depressione, irritabilità), sia disturbi fisici (disturbi digestivi, difficoltà respiratorie, alterazioni del ritmo cardiaco, mal di testa, nausea, debolezza e altro).
Nel 1984 Lazarus e Folkman ridefiniscono lo stress come una transizione fra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere. E’ riconosciuto al soggetto un ruolo attivo. Egli può infatti influenzare l’impatto del fattore stressante mediante strategie cognitive, emozionali e comportamentali finalizzate al controllo delle proprie reazioni emotive. Oltre agli stress psicofisiologici esistono anche gli stress psicosociali. Particolare rilievo assumono quegli eventi fondamentali della vita che costringono la persona ad affrontare dei cambiamenti significativi nella propria vita e richiedono uno sforzo di adattamento
2. Stress e Lavoro sanitario
Uno degli ambiti psicosociali dello stress più studiati recentemente è quello lavorativo. Il lavoro umano non è mai, in modo esclusivo, semplice produzione di “cose”, ma rimanda necessariamente a cose che scottano come l’identità, la relazione, la produzione di un senso. Ciò è particolarmente evidente nel lavoro terapeutico ed assistenziale. Esso si presenta infatti, principalmente, come un insieme di prodotti/servizi, di lavorazioni/processi che s’intrecciano con le aree maggiormente problematiche della soggettività umana, con i vissuti dolorosi del limite e dell’incertezza, con il timore della malattia e della morte. Sofferenze psichiche e somatiche di elevato livello mobilitano nei pazienti la circolazione di istanze emotive primarie e di richieste regressive, evocando nei curanti sentimenti di livello simmetricamente profondo: desideri di salvezza onnipotente, sentimenti di ostilità, insofferenza, angosce persecutorie, aggressività. Il "mestiere di curare", nonostante gli straordinari sviluppi della tecnologia, non può del resto prescindere dalla relazione tra persone, tra chi richiede e chi offre un aiuto, ed eludere lo squilibrio, disorientante sul piano emotivo, che essa comporta. Per vivere e lavorare sufficientemente bene e per provvedere per quanto possibile alla cura degli altri, occorre, ovviamente, che infermieri , medici ed altre figure della scena della cura, abbiano prima di tutto cura di se stessi. E’ necessario quindi che l’operatore sia stato formato appositamente per riconoscere e governare tutte quelle istanze emozionali
ambivalenti che inevitabilmente emergono nel contatto, a volte frustrante, con la sofferenza dell’altro, mettendolo in grado di gestire questi sentimenti e di non esserne a sua volta travolto.
3. Dallo Stress al Burn-out
Quando si può parlare di stress e quando invece si deve parlare di burn-out? Che cosa caratterizza in specifico quest’ultimo? Alcuni autori, hanno contribuito a sviluppare una maggiore consapevolezza delle linee di forza più interne delle strutture sanitarie e sui fattori e profili di stress e burn out.
Freudenberger (1974) utilizza per la prima volta in ambito sociosanitario il termine burn-out (bruciato, scoppiato), che nel giornalismo sportivo anglosassone descrive il brusco calo di rendimento di un atleta, dovuto al venire meno degli stimoli motivazionali. Con tale termine egli indica una condizione d’esaurimento fisico ed emotivo, riscontrata tra gli operatori impegnati in professioni d’aiuto, determinata dalla tensione emotiva cronica creata dal contatto e dall’impegno continui ed intensi con le persone, i loro problemi e le loro sofferenze. Cherniss (1982) ha osservato e descritto la Sindrome di burn-out in operatori di Servizi Sociosanitari e l’ha messa in relazione con massicci processi di ristrutturazione, con processi di ridefinizione delle identità professionali, con assetti organizzativi squilibrati, con stili di comunicazione problematici, con carenza di adeguati sistemi premianti, evidenziando i fattori di rischio e di protezione. Psicologicamente il burnout rappresenta il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità di richieste rivoltegli dagli utenti e risorse disponibili (individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla convinzione di non poter fare nulla per modificare la situazione, per eliminare l’incongruenza tra ciò che ritiene che l’utente si aspetti e ciò che è in grado di offrire. Ciò porta ad un esaurimento di energie che può avere molteplici manifestazioni:
• Sintomi fisici, quali la fatica, frequenti mal di testa, disturbi gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso dei farmaci;
• Sintomi psicologici, ad esempio, senso di colpa, negativismo, alterazioni dell’umore, scarsa fiducia in sé, irritabilità, scarsa empatia e capacità di ascolto;
• Reazioni comportamentali sul luogo di lavoro, quali assenze o ritardi frequenti, tendenza ad evitare contatti telefonici e a rinviare gli appuntamenti, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate;
• Cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti, quali chiusura difensiva al dialogo, cinismo, spersonalizzazione nei rapporti , distacco emotivo e indifferenza ai problemi dell’altro.
La caratteristica distintiva del burn-out secondo Faber (1983) è che questo non è tanto il risultato dello stress in sé (che è forse inevitabile nelle professioni d’aiuto in ambito sanitario), ma dello stress non mediato, dell’essere stressato senza via d’uscita, senza elementi di moderazione, senza sostegno. In pratica è uno stress lavorativo prolungato nel tempo caratterizzato dalla percezione del soggetto di essere in una situazione senza prospettive, di non intravedere una via d’uscita. Maslach mette in evidenza il ruolo degli elementi organizzativi del lavoro come fattori di rischio e dà una definizione operativa di Sindrome di Burn-out identificandone i diversi profili (Maslach 1976, Maslach 1982):
• Esaurimento Emotivo: si riferisce alla perdita di energia ed alla sensazione di aver esaurito le proprie risorse emozionali per affrontare la realtà quotidiana. Fa sì che la persona si senta emotivamente svuotata e annullata dal proprio lavoro, e cerchi di evitare il coinvolgimento riducendo il contatto con le persone per distaccarsi psicologicamente dalla situazione. Coesiste con sentimenti di frustrazione e di tensione che aumentano nel momento in cui gli operatori si accorgono di non poter dare più se stessi e di non poter essere più responsabili degli utenti come una volta. Un sintomo ricorrente è il terrore all’idea di doversi recare al lavoro il giorno dopo.
• Depersonalizzazione: si presenta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
Consiste nel trattare i clienti come oggetti e non come persone; distacco e insensibilità verso gli utenti, i collaboratori e l’organizzazione sono le manifestazioni più tipiche. I sintomi includono l’uso di un linguaggio denigratorio, risposte comportamentali negative e sgarbate, pause e conversazioni prolungate con i colleghi. Inoltre l’operatore tenta di sottrarsi al coinvolgimento, limitando la quantità e la qualità dei propri interventi professionali, fino a fuggire dalle richieste di aiuto e sottovalutare i problemi dell’utente.
• Ridotta Realizzazione Personale: si riferisce a un sentimento di fallimento professionale perché l’operatore percepisce la propria inadeguatezza al lavoro; è la tendenza ad autovalutarsi negativamente. Il declino della sensazione di competenza professionale è data anche dal fatto che l’operatore si sente in colpa per il disinteresse e l’intolleranza verso la sofferenza degli altri e per le relazioni disumanizzate che ha instaurato con gli altri; quindi si ha una caduta dell’autostima e della fiducia nelle proprie capacità personali e professionali.
Per la Maslach (1978) il burn-out non è tanto lo stress ma la sua conversione in atteggiamenti di distacco emozionale e di meccanicità dei comportamenti dell’operatore, che assumono una valenza di barriera difensiva . Non c’è dunque una risposta predeterminata ad ogni tipo di stress ma questa dipende dal mix di mediatori psicologici (quali valori e abilità di coping) e dei mediatori situazionali cui un individuo può ricorrere di volta in volta. Maggiori saranno i mediatori disponibili in una particolare situazione minori saranno le probabilità di un esito patologico dell’evento stressante verificatosi. Si può intervenire preventivamente sugli individui per prevenire situazioni di crisi se si rafforzano le loro risorse sia psicologiche sia situazionali. Il processo di burn-out, non prevenuto né contenuto, può cristallizzarsi in una entità clinica, può invalidare il soggetto fisicamente e psichicamente, può incidere negativamente nei rapporti familiari, amicali e relazionali in genere.
4. Burn-Out: fattori di rischio
Ma quali sono i fattori che ingenerano nel soggetto esaurimento emotivo, distacco, comportamento difensivo? Farber ha individuato i fattori, potenzialmente presenti in tutti gli ambiti lavorativi, che possono essere raggruppati in tre grandi variabili per meglio comprendere il problema e studiarne i possibili rimedi:
Variabili organizzative: riguardano l’ambiente lavorativo e la sua modalità di funzionamento. La Maslach ritiene che il burnout nei singoli lavoratori descriva molto di più le condizioni di lavoro che le loro persone. Contrariamente all’opinione comune, non è tanto l’individuo a dover cambiare quanto l’organizzazione, specialmente nell’attuale scenario socioeconomico. Questa affermazione così forte suggerirebbe che il vero malato per la studiosa non sarebbe tanto l’individuo quanto piuttosto l’organizzazione del mondo del lavoro e la società più in generale con i suoi valori. La sindrome del burnout è indice di una non corrispondenza tra quello che le persone sono e quello che le persone debbono fare. Esprime un deterioramento che colpisce i valori, la dignità, lo spirito e la volontà delle persone; esprime cioè una corrosione dell’animo umano. E’ una malattia che si diffonde nel tempo con costanza e gradualità risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale è difficile riprendersi. La Maslach individua sei principali discrepanze tra le persone e il mondo del lavoro: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, remunerazione insufficiente, crollo del senso di appartenenza comunitario, assenza di equità, valori contrastanti. Queste variabili sociali hanno a che vedere con la rete di sostegno di cui una persona può godere e in particolar modo della rete di sostegno informale (parenti, amici, colleghi, persone con cui si condividono concezioni di vita, affetti e interessi) che, con l’inurbamento progressivo e il declino della famiglia patriarcale, si sono ridotti fino a quasi scomparire nella vita delle odierne città. Il ridursi di questi spazi di sostegno possibile rendono l’individuo più fragile poiché è più difficile ricorrere, in momenti di bisogno, alla funzione protettiva del sostegno informale che invece era più forte nel passato soprattutto grazie all’appoggio familiare. Per gli operatori della salute, ricorrere alla rete formale di sostegno diventa più difficile che per la persona comune. C’è una sorta di pudore che inibisce in misura maggiore gli operatori della salute che è dato dal fatto di passare dall’altra parte della barricata: da curante a riconoscersi bisognosi di cure. Ecco il perché diventa
maggiormente importante, secondo Del Rio (1995), che la dimensione protettiva dovrebbe essere ricercata nel proprio gruppo di lavoro; i colleghi, l’équipe, dovrebbero connotarsi come rete o nicchia di reciproco sostegno.
Variabili Individuali: queste riguardano le caratteristiche personali di ciascuno. Il possedere determinate caratteristiche, a parità di variabili organizzative e sociali, espone la persona a un maggiore rischio di soccombere di fronte allo stress. Giocano infatti in maniera negativa: basso livello di autostima, bassa soglia di tolleranza alle frustrazioni, elevata sensibilità, sentimenti di inadeguatezza
Variabili Sociali: Cherniss (1982) individua le seguenti variabili sociali: sfaldamento progressivo del tessuto sociale dei quartieri urbani periferici, declino vita comunitaria, scomparsa della rete di sostegni informali del passato.
5. Il Burn Out in Ospedale: contributi di ricerche italiane
Il Convegno sul “Disadattamento al lavoro”, promosso dall’Istituto Italiano di Medicina Sociale (1984 ) e la Ricerca Finalizzata del CNR su “Stress e lavoro” (Boccalon R. 1993) hanno offerto indicazioni metodologiche utili per un’analisi integrata dei fattori fisici, psichici e sociali di stress nel personale del Servizio Sanitario Nazionale. Da tali ricerche è emersa un’indicazione ad effettuare valutazioni multiassiali, a confrontare dati soggettivi e oggettivi per definire mappe dei fattori di rischio occupazionale e di protezione sufficientemente articolate, capaci di descrivere e comprendere meglio il profilo del “mestiere di curare”. Una meta-analisi della letteratura internazionale evidenzia alcune lacune: 1) I lavori sono in genere effettuati su gruppi relativamente piccoli, con scarso o nullo mix di professionalità. Sono numerosi gli studi su infermieri, specie in formazione, e su volontari; sono meno frequenti gli studi sui medici ed altre figure professionali sanitarie. 2) Sono frequenti studi su alcuni singoli servizi o reparti (psichiatria, malattie infettive, riabilitazione, oncologia), ma sono pressoché assenti studi che prendano in esame un intero ospedale. 3) Sono usati strumenti di rilevazione molto diversi che non consentono sempre di confrontare i risultati. Sono utilizzate diffusamente griglie di valutazione o test validati, come il Maslach Burn out Inventory, ma in modo isolato, senza contestuali indicatori capaci di monitorizzare la complessità sia dell’esperienza soggettiva che dell’organizzazione lavorativa. 4) Non esistono dati relativi a studi longitudinali e multicentrici che possano offrire una mappa dei fattori di rischio e di protezione e che possano orientare interventi sul piano formativo ed organizzativo e valutarne in modo affidabile l’efficacia.
In un’indagine condotta in parallelo nell’Ospedale S. Anna di Ferrara e nell’Ospedale Careggi di Firenze (Boccalon R. 2000, Boccalon P. 2002b), è stato utilizzato un questionario autosomministrato, anonimo, multiassiale, in grado di esplorare contestualmente sia i profili dell’esperienza soggettiva che della organizzazione lavorativa su un campione di alcune migliaia di soggetti. I risultati hanno confermato un elevato livello di Stress e Burn-out nel personale Ospedaliero, hanno evidenziato profili di vulnerabilità diversi secondo il ruolo e l’area professionale ed hanno permesso di individuare fattori di rischio e fattori di protezione.
Dall’analisi dei dati raccolti il “mestiere di curare” emerge come entità complessa e contraddittoria che incide comunque pesantemente sui profili dell’identità personale e professionale, attraverso meccanismi di gratificazione e di frustrazione. Medici ed infermieri mantengono, in eguale misura, nel tempo una forte motivazione ad un lavoro che richiede un’elevata professionalità, che considerano di grande utilità sociale e alle cui richieste si sentono adeguati sul piano professionale. La discrepanza tra il ruolo ideale atteso, interiorizzato nel processo formativo, e la realtà lavorativa si rivela però allo stesso modo dolorosa per medici ed infermieri.
L’esperienza concreta del lavoro è vissuta in modo nettamente differente secondo il ruolo professionale. L’organizzazione del lavoro è colta come luogo di grave conflitto intestino. La scissione tra medici e infermieri è netta e può certo essere vissuta da questi ultimi come un tradimento davanti a compiti gravosi, che richiederebbero una piena condivisione di onori ed oneri. Un riavvicinamento parziale tra i due gruppi si realizza, difensivamente, quando è individuato un nemico esterno nella Direzione Aziendale, giudicata da una larga maggioranza trasversale
colpevole di non utilizzare le competenze professionale dei dipendenti. La comune valutazione di subire, anche se in proporzioni diverse, una quota di potere maggiore di quella esercitata, sembra invece esprimere una coesione difensiva attorno a vissuto persecutorio e depressivo al tempo stesso.
Gli infermieri sperimentano minore soddisfazione ed interesse, minori possibilità di realizzazione e di espressione delle proprie potenzialità, maggiore rigidità, nonché la concreta impossibilità a sentire il lavoro come un momento centrale, significativo e una più acuta sensazione di non poter reggere per molto tempo una posizione troppo frustrante.
I medici si dividono in modo netto riguardo alla centralità del lavoro e al suo interesse, che s’intrecciano in modo inverso negli uomini e nelle donne; si riaggregano invece per scontare alla pari un iperinvestimento sul lavoro, anche in quanto fonte di gratificazione, con un condizionamento particolarmente negativo della vita privata.
La comunicazione è abbastanza buona tra colleghi della stessa professione, ma peggiora nettamente nell’impatto tra professioni diverse. La comunicazione con l’altro è desiderata come bagaglio ideale della professione, ma nella pratica sembra elusa in quanto fonte d’incertezza. Sembra meno problematico ripiegare su modalità di rapporto più rassicuranti, “giocare in casa”, dove è più alto il rischio della stereotipia che non quello del confronto e del possibile conflitto.
Medici ed infermieri sembrano ritrovare una piena convergenza nella comune e quasi plebiscitaria percezione della fatica mentale come fattore principale del carico lavorativo, e nell’individuare, nella relazione con il paziente terminale, il livello massimo di tale fatica. La ricerca della tecnica affonda le radici anche nell’illusione di evitare il limite ultimo, lo scacco matto che il paziente terminale ripropone invece in modo inquietante, con la conseguente diffusa percezione di essere disarmati davanti ai compiti e alle richieste della relazione assistenziale.
Il bisogno e il coraggio di comunicare il disagio aggrega primariamente il profilo di un’identità femminile trasversale ai ruoli professionali. La convinzione shakespeariana della necessità e utilità di “dare parole al dolore” aggrega invece tutti i soggetti di là dall’identità di genere e di quella professionale. Gli infermieri sembrano più disponibili dei medici ad affidare i propri vissuti ad un esperto, a lasciarsi aiutare. Manca però una “casa” per i pensieri e le parole del disagio lavorativo. Le procedure formali del lavoro, specie infermieristico, non sembrano previste, infatti, per accogliere i vissuti emotivi del personale. E come in tutte le strutture in cui c’è squilibrio tra bisogno di comunicare e vincoli istituzionali, si assiste anche nelle strutture sanitarie allo sviluppo di una florida area informale “underground”, prima fra tutte la cucinetta nei reparti di degenza. Tale economia comunicativa sommersa è un elemento di tenuta, di sostegno individuale e di gruppo, ma per il suo essere un momento scisso, non legittimato, la fa vivere come non professionale come spazio ludico, clandestinamente ritagliato in orario di lavoro. La scissione, il permanere nell’informale di tali spazi li delegittima di senso, per questo essi sono da un lato cercati e difesi, ma dall’altro svalutati come i pensieri e le emozioni che a loro sono stati affidati.
Medici ed infermieri si descrivono in eguale misura in buona salute e tendono ad escludere un’influenza del lavoro nel modulare risposte adattive di tipo psichico e somatico, a dispetto di profili di sintomi specificamente correlati al ruolo professionale, configurando forse un movimento difensivo, teso a negare all’esperienza lavorativa un potere di manipolazione del corpo e della mente. L’area dei sintomi psichici segnala, di fatto, un allineamento dei due gruppi, che sembrano presentare sostanzialmente un grado di morbilità relativa molto simile, che non sembra influenzato dalla diversità dell’età media dei due campioni.
L’incidenza di un disagio specifico nella relazione d’aiuto, la Sindrome di burn-out, è elevata nei medici e molto elevata negli infermieri. Nei medici il burn-out decresce man mano con l’esperienza lavorativa, mentre negli infermieri si assiste ad un incremento progressivo, che coinvolge in particolare le donne. Diversa è anche l’espressione sintomatica di burn-out in rapporto al profilo professionale. Gli infermieri attraverso l’esperienza della relazione d’aiuto riducono il ricorso a difese massive basate sul distanziamento e la spersonalizzazione, mentre i medici lo aumentano, come se la professionalità acquisita consistesse in parte in una corazza più spessa che protegge dall’emozione di un incontro problematico con l’altro, che può aiutare a mantenere la freddezza e
lucidità necessarie per agire, ma al tempo stesso impedisce l’empatia e la “com-passione”. I medici sembrano poter ridurre nel tempo la quota di sofferenza per la ridotta realizzazione personale, mentre gli infermieri la aumentano. Tale risultato, , tra gli infermieri e i medici apparentemente in contrasto con il riconoscimento di una netta ed omogenea flessione rispetto alle aspettative iniziali nel livello di soddisfazione relativo al lavoro, fa pensare che processi d’interiorizzazione dell’identità professionale molto massivi, come il processo di formazione del medico, possano forse determinare a volte una qualche distorsione dell’esame di realtà e la tendenza a dare voce non tanto alla propria soggettività problematica, ma ad una soggettività idealizzata, scissa e possibile fonte di ulteriore distacco.
7. Terapia del burn-out
Non esiste alcuna terapia specifica e quindi realmente efficace per un quadro di manifesto burn-out.
L’unico reale rimedio è la prevenzione: è infatti un lavoro molto difficile recuperare una situazione degenerata sia per il singolo lavoratore che per l’ambiente lavorativo nel suo complesso. Coerentemente con il modello psicosociale di spiegazione del burnout, che lo vede come una sindrome multifattoriale, l’azione preventiva va attuata, il prima possibile, a diversi livelli:
Organizzativo: riprendendo lo schema della Maslach sulle discrepanze, fra l’individuo e l’organizzazione a livello di una situazione lavorativa abbiamo automaticamente, formulandone il contrario, le soluzioni: sovraccarico di lavoro/carico di lavoro sostenibile, mancanza di controllo/sentimento di scelta e di controllo, remunerazione insufficiente/riconoscimento e ricompensa, crollo del senso di appartenenza comunitario/senso di appartenenza a una comunità, assenza di equità/equità, rispetto e giustizia, valori contrastanti/lavoro ricco di significato e di valori. Ma chi deve promuovere questi cambiamenti nell’organizzazione? Come sostiene la Maslach l’automiglioramento da solo non è sufficiente per vincere il burn-out. Per risolvere le discrepanze tra la persona e il lavoro, è necessario focalizzarsi sia sull’individuo sia sul luogo di lavoro e non unicamente sulla persona. Bisogna promuovere i valori umani all’interno del mondo del lavoro e creare un sistema che si occupi di risolvere i continui conflitti di valore nelle organizzazioni. Il processo di cambiamento in questo senso deve diventare un interesse prioritario dei dirigenti o degli organi di comando di ogni organizzazione lavorativa. Questo potrà accadere quando si diffonderà la consapevolezza che il burnout è non solo un costo emotivo per le persone colpite e per chi gli sta vicino, ma anche un costo economico e di efficienza per le organizzazioni. L’obiettivo è di promuovere in ogni organizzazione il superamento delle sei discrepanze principali individuate tramite il perseguimento dei valori umani che ne rappresentano la soluzione..
La sindrome del burnout è indice di una non corrispondenza tra quello che le persone sono e quello che debbono fare. Esprime un deterioramento che colpisce i valori, la dignità, lo spirito e la volontà delle persone; esprime cioè una corrosione dell’animo umano. Riteniamo che i divari tra la persona e il lavoro possano essere colmati in un modo da reintrodurre i valori umani nel luogo di lavoro, rendendo quest’ultimo più sensibile nei confronti delle persone.
Istituzionale: nella gestione quotidiana del “mestiere di curare” è importante evitare l’ipercoinvolgimento e modulare la distanza tra operatore e utente. Operazione non semplice che chiama in causa capacità di dialettica continua di contatto e di separatezza, ma che è condizione perché la relazione terapeutica non si collassi o irrigidisca. Tutti gli autori sono concordi nel suggerire agli operatori modalità di gestione delle proprie energie ed una forma di “egoismo responsabile”. Stabilire orari, turni, vacanze adeguate può essere considerato un fattore di prevenzione. Si tratta di una declinazione dei complessi rapporti fra investimenti narcisistici ed oggettuali. Poiché il lavoro si svolge all’interno di gruppi di lavoro o équipe diviene cruciale il loro ruolo: l’aggiornamento ed un continuo interscambio con l’équipe permettono una riflessione ed una trasmissione della propria esperienza, anche della più frustrante, permettendone la verifica e la restaurazione (Poterzio 1997).
Poiché vi è una intensa mobilitazione emozionale suscitata dal contatto con situazioni difficili della medicina, un attento riconoscimento e la rielaborazione di tali componenti rappresentano senza dubbio una modalità di rafforzamento della rete di operatori che si dedicano all’assistenza ed un consistente alleggerimento del carico emotivo che grava sul singolo. La coesione del gruppo di lavoro appare inoltre un fattore protettivo nei confronti del burnout: gruppi coesi rappresentano più elevati livelli di comunicazione, anche emozionale; all’interno di essi l’etica del lavoro e la soddisfazione lavorativa appaiono più sviluppate. L’attenzione alla cura del contenitore istituzionale ha dunque ripercussioni positive sia sulla qualità di lavoro degli operatori che sull’andamento della gestione dei pazienti.
Il gruppo di lavoro costituisce un elemento di continuità e di stabilità nella difficile gestione dei momenti cruciali del paziente e del reparto stesso. Appare di primaria importanza in questo contesto la figura del leader, al quale spesso il gruppo richiede attenzione paterna e che contemporaneamente deve oggi confrontarsi con il problema dell’aziendalizzazione delle ASL e con problematiche di ordine economico, amministrativo che essendo spesso lontane o contrastanti con esigenze cliniche , generano discordie, malumori, scissioni. Il leader assume il delicato ruolo di continua mediazione tra richieste di diversa natura e provenienza, ma che tuttavia ugualmente influenzano il funzionamento del gruppo .
Balint (1961) comprese quanto un rapporto medico-paziente difficile, infelice o spiacevole potesse influenzare negativamente il decorso della sofferenza e di conseguenza , indicò, attraverso una formazione di gruppo, come adoperare in modo tecnicamente corretto le capacità individuali di rapporto umano quotidianamente impiegate nell’esercizio professionale.
Personale: Nelle professioni di aiuto bisogna tenere presente che l’operatore è obbligato a confrontarsi frequentemente con la difficoltà di attribuzione di un senso agli avvenimenti della vita umana. Tale riflessione risulta meno gravosa per chi abbia sviluppato una propria elaborazione personale in merito ai fondamentali nodi dell’esistenza umana (amore, vita, ma soprattutto dolore e morte). In caso contrario il soggetto, che è necessariamente esposto a continue sollecitazioni interrogative in merito a tali argomenti, produce inevitabilmente conflittualità e disagio spirituale.
La prevenzione del fenomeno del burn-out richiede che non si verifichi un investimento eccessivo in campo lavorativo a scapito di relazioni affettive e familiari. E’ necessario che il soggetto sappia mantenere la giusta distanza tra il coinvolgimento suscitato dai problemi lavorativi e la propria vita privata. Se vi è uno sbilanciamento di energie investite tra il quotidiano e il mondo del lavoro e soprattutto se manca una reale rete affettiva non avviene il necessario rifornimento energetico per affrontare gli stress lavorativi. Risulta quindi importante avere molteplici interessi extralavorativi, il sostegno familiare e una adeguata rete relazionale interpersonale.
E’ molto difficile che un giovane possegga queste doti di equilibrio fra mondo del lavoro e la vita privata ed infatti i giovani sono fra i soggetti ritenuti più a rischio di burn-out insieme alle donne nubili o divorziate che, in quanto tali, non posseggono una adeguata rete affettiva.
Così come a livello istituzionale la prevenzione del burn-out comporta la creazione di strutture di sostegno all’interno dell’équipe, a livello personale è importante che questa possibilità di sostegno vi sia. Le ricerche e gli studi svolti, hanno suggerito vari modelli d’azione e d’influenza delle relazioni di sostegno attraverso i quali si esplicherebbe quest’azione positiva e tutelatrice della salute: due dei modelli esemplificativi sono quello d’azione diretto e quello d’azione indiretto (Bandolato 1993) .
Modello d’azione diretto: il sostegno può influire positivamente sulla salute anche indipendentemente dalla presenza di stress di vita. Si ipotizza che il poter contare su un’adeguata rete sociale supportiva sia fonte di benessere fisico e psicologico.
Modello d’azione indiretto (o modello tampone): nella sequenza stress-sostegno-salute, il sostegno argina e modula le conseguenze dello stress sulla salute in vario modo, può: a) modificare il significato dell’evento stressante (ad es., un soggetto che gode di alcune relazioni di sostegno può essere aiutato nello sdrammatizzare gli eventi); b) favorire nuove strategie per affrontare gli eventi; c) aumentare le difese contro le emozioni negative scatenate dall’evento (le emozioni sono contenute ed elaborate); d) potenziare le difese adattive migliori che si mantengono efficaci anche molto dopo l’evento stressante.
8. Conclusioni
Il fenomeno Burn-out costituisce solo un segmento delle possibili manifestazioni di disagio occupazionale in una struttura sanitaria, ma è particolarmente insidioso in quanto mina selettivamente la capacità di sentire e di relazionarsi con l’altro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1992) mette in guardia sul fatto che lo Stress non può più essere considerato un problema occasionale e individuale, cui porre rimedio con semplici palliativi. Esso va assumendo le proporzioni di un fenomeno globale, con costi crescenti per le aziende e per la società. Va
affrontato con mezzi efficaci ed innovativi privilegiando strategie tese all’individuazione e all’eliminazione delle cause, piuttosto che al trattamento delle loro conseguenze.
L’area dell’Endoscopia, sembra avere alcune caratteristiche protettive rispetto alle dinamiche, talora regressive, dell’istituzione ospedaliera in generale. E’ necessario a tal fine investigare in modo più sistematico la “scena della cura” dell’Endoscopia, in particolare, l’area di quelle variabili "soft" (formazione, motivazioni individuali e collettive, aspettative di ruolo, atteggiamenti, stili di lavoro) che i diversi attori sociali implicati immettono nel “campo”, e che sono responsabili di una quota non trascurabile della plasticità del sistema stesso, della sua razionalità, della sua efficacia e del suo impatto in termini di carico di lavoro. I vissuti, i discorsi, le immagini e le metafore dell’organizzazione possono essere recuperati ad una lettura più consapevole, aperta al cambiamento maturativo. Solo così l’operatività può perdere le caratteristiche di una coazione a ripetere meccanicamente prestazioni e sviluppare le caratteristiche salutari della creatività. Individuare con maggiore precisione criticità e fattori di rischio, riconoscere e valorizzarle i fattori protettivi, può aiutare a sviluppare una prevenzione primaria dello Stress occupazionale e ad implementare contestualmente la più consistente dotazione tecnologica dell’Ospedale: il personale sanitario.
L’assenza d’interventi preventivi precoci riduce la possibilità di una gestione adeguata della risorsa umana dell’Ospedale e delle sue problematiche relative allo stress occupazionale e al burn-out, col rischio di costringere l’azienda sanitaria a politiche difensive, tendenti dapprima alla negazione del problema, e successivamente alla marginalizzazione dei soggetti che presentano un disagio o sono portatori di istanze che mettono a disagio. Il fallimento di una politica di prevenzione determina, di fatto, un cortocircuito istituzionale in cui l’azienda sanitaria rischia di fallire la sua Mission di promozione e di tutela della salute proprio con i pazienti che gli sono più prossimi, ossia i propri dipendenti.
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